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"L'esperimento senza dati"

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27 gennaio 2009

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Da pochi mesi l'ISTAT ha distribuito gli indici dei prezzi dal 1995 al 2006 per le pro-vince italiane, e la distribuzione delle differenze di costo della vita per venti capoluoghi di regione nell'anno 2006. Sono dati che riguardano, purtroppo, solamente l'abbigliamento, l'arredamento e il vitto (rispettivamente 6.4%, 5.9% e 19% della spesa di una famiglia italia-na nel 2006). Manca, in particolare, la voce di spesa più importante: quella per "abitazione ed energia" (31% del paniere; ISTAT: I consumi delle famiglie, 2006). Tuttavia queste infor-mazioni consentono, finalmente, di stimare, seppur in modo parziale, la variabilità del costo della vita nelle diverse zone del paese, proiettando all'indietro, con gli indici provinciali, le differenze osservate nel 2006.
Bene davvero ha fatto l'ISTAT, perché alla luce di questi indicatori l'idea di una con-trattazione unica nazionale dei salari nominali appare priva di senso.
Il riquadro in alto a sinistra della figura mostra l'andamento del salario reale settima-nale al nord, al centro e al sud, usando la vecchia serie dei prezzi uguale per tutto il territorio nazionale. I lavoratori del nord sembrano avere il maggiore potere d'acquisto in ogni anno seguiti a ruota da quelli del centro, mentre i lavoratori del sud seguono a grande distanza (in media 17% in meno rispetto ai settentrionali). Prima che i nuovi indici dei prezzi venissero pubblicati, molti ritenevano che l'ordinamento vero del potere d'acquisto nelle tre regioni fosse esattamente l'opposto. Il riquadro di destra della figura mostra una realtà più complessa e non corrispondente alle previsioni. Sono i lavoratori del centro ad avere sempre il potere d'acquisto maggiore. I lavoratori del sud hanno salari reali maggiori di quelli del nord dal 1995 al 1998, e inferiori dal 1999 in poi. I due grafici in basso mostrano che è l'andamento del salario nominale medio delle macro aree a determinare l'inversione delle posizioni tra nord e sud. I prezzi, durante l'intero periodo sono sistematicamente maggiori al nord, vicini alla media nazionale al centro e inferiori al sud. Ad esempio nel 2004, fatto 100 il costo della vita al sud, diventa pari a 107 al centro e a 114 al nord.
In un contesto in cui le differenze nel costo della vita tra zone diverse del paese sono così ampie ha senso che Sindacato e Confindustria continuino a difendere il vetusto strumen-to della contrattazione unica nazionale? Il recente accordo quadro fa qualche timido passo nella giusta direzione di ridurre la rilevanza del contratto nazionale, ma sorge il sospetto che le rispettive burocrazie centrali delle parti in causa non abbiano interesse a rendere questi pas-si meno timidi.



Su questa domanda la bagarre aumenta di intensità. La Confindustria sostiene (grafico di sinistra che, a partire dal 1995, vi sia stato un trend complessivamente negativo dei margini di profitto. La CGIL, invece (grafico di destra), afferma che i profitti delle imprese sono cre-sciuti, in particolare dopo il 2004, a spese della quota del lavoro. Poiché le analisi si basano su dati diversi non deve necessariamente stupire la differenza tra i risultati, ma è assoluta-mente inutile un dialogo tra sordi che non vogliano capire la natura delle differenze.
In particolare, l'analisi di Confindustria si basa su un campione che comprende tutte le società di capitali ed è rappresentativo del manifatturiero, ma non degli altri settori nei qua-li operano prevalentemente piccole imprese. Il campione utilizzato dalla CGIL, invece, è rap-presentativo delle grandi aziende con più di 499 addetti e, secondo la Confindustria, è distorto verso imprese con margini di profitto maggiori.
Usando la banca dati AIDA, che include tutte le società di capitale con fatturato supe-riore a 100.000€, Giuseppe Lubrano Lavadera (La valutazione dei patti territoriali. Un'anali-si su dati di impresa, PRIN 2005, Università di Salerno) offre un quadro meno parziale più corrispondente all'universo INPS di cui le altre schede mostrano l'evoluzione dei salari.



La quota di reddito nazionale destinata alle imprese non sembra essere aumentata tra il 1998 e il 2006 in nessuna area del paese. È possibile che sia i salari sia i profitti non siano cresciuti? È stata una guerra con solo vinti e senza vincitori?



Tutti sembrano aver perso, ma questo non deve sorprendere. È semplicemente il risul-tato della diminuzione della capacità produttiva dell'intero paese. Lo dice l'indice della pro-duttività totale dei fattori misurato dalla Banca d'Italia (Bassanetti, Torrini e Zollino, 2008). Ma il declino non ha colpito tutti in egual misura. Da una parte, le grandi imprese sembrano aver accresciuto i loro margini di profitto. Dall'altra, i lavoratori italiani, sia uomini che don-ne, pur non avendo goduto in generale di grande salute, hanno per lo meno recuperato, a par-tire dai primi anni 2000, parte del potere d'acquisto perso negli anni novanta con una crescita salariale che, per quanto modesta, è stata superiore alla crescita della produttività del lavoro (Torrini, 2008, Banca d'Italia). Per gli stranieri sembra invece essere stato un bagno di san-gue.
Ma è bene che al tavolo della contrattazione ci si focalizzi prima di tutto su perché la dimensione della torta si riduce, lasciando per quanto possibile al dopo il problema della sua spartizione. Altrimenti, come nel caso Alitalia, rimarrà ben poco da spartire.

Valentina Adorno: valentina.adorno@unibo.it
Andrea Ichino: andrea.ichino@unibo.it
Giovanni Pica: gpica@unisa.it

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